
Esplorando l’eterogeneità della Miastenia Gravis: biomarcatori e tecnologie emergenti
Una malattia molto eterogenea, che ha conosciuto negli ultimi anni notevoli progressi nell’armamentario farmacologico, ma che ancora necessita di essere compresa a fondo nei suoi molteplici aspetti immunobiologici, per poter arrivare a migliori percorsi diagnostico-terapeutici e di valutazione dell’outcome clinico. È questo il quadro delineato nel corso della lettura “Considerazioni cliniche nella gestione della miastenia gravis: uno scenario in evoluzione”, tenuta dal dottor Raffaele Iorio, del Policlinico Gemelli di Roma e moderata dal Dr Carlo Antozzi dell’IRCCS C. Besta di Milano, e promossa da Johnson & Johnson Innovative Medicine, nell’ambito del recente Congresso della Società Italiana di Neurologia (9-12 novembre, Roma).
Caratteristici della patologia sono anzitutto i sintomi, che peggiorano con lo sforzo e migliorano con il riposo, con interessamento dei muscoli oculari (diplopia, ptosi palpebrale), bulbari (con affaticamento con la masticazione, disartria, disfagia) e scheletrici (con debolezza del collo e degli arti), fino ad arrivare all’insufficienza respiratoria.
Per quanto riguarda l’eziopatogenesi, la miastenia gravis è una malattia autoimmune della giunzione neuro-muscolare, che si associa nell’85% circa dei casi ad anticorpi diretti contro i recettori dell’acetilcolina (AChR) e in una minoranza di casi (5-8%) ad anticorpi anti-tirosinchinasi muscolo-specifica (MuSK). La classificazione della miastenia in diverse forme rispecchia l’eterogeneità della malattia. Si distinguono: forme a esordio precoce (prima dei 50 anni), a esordio tardivo (dopo i 50 anni) e associate a timoma (tutte e tre correlate ad anticorpi anti-AChR); forme correlate ad anticorpi anti-MuSK; forme associate ad anticorpi anti-LRP4; infine, forme cosiddette sieronegative, nella quale non è possibile identificare auto-anticorpi specifici.
La diagnosi di miastenia è abbastanza lineare e si basa sulla clinica, sul dosaggio degli anticorpi e sull’elettromiografia. Tuttavia, si registra tutt’ora un’elevata quota di misdiagnosi (pari al 13% in un recente studio italiano). Il tempo trascorso prima di una diagnosi corretta è inoltre lungo, pari a circa 40 mesi, in media.
Per quanto riguarda il decorso della patologia, la mortalità associata si è ridotta notevolmente nel tempo ed è aumentata la prevalenza. Inoltre, va sicuramente tenuta presente la possibilità di esacerbazioni della malattia, legate soprattutto alle infezioni, all’uso di farmaci, in particolare di antibiotici, e alla mancata aderenza alla terapia.
La complicanza più importante della miastenia gravis è la crisi miastenica, un evento associato a un’insufficienza respiratoria, che va trattata con l’intubazione orotracheale e la ventilazione meccanica. Colpisce il 15-20% circa dei pazienti con miastenia gravis generalizzata, in genere entro 2-3 anni dall’insorgenza della malattia, quando l’età media del paziente è tra i 60 e i 70 anni, dopo un tempo medio di 8-12 mesi dalla diagnosi e con un’incidenza annuale del 2,5%. I sottogruppi più a rischio di crisi miastenica sono i pazienti con anticorpi anti-MuSK (33%) e i pazienti con timoma (19%). I pazienti con anti-MuSK hanno anche una prognosi più sfavorevole: necessitano di più giorni di ventilazione meccanica, di terapia intensiva e di ricovero ospedaliero.
L’obiettivo del trattamento della mistenia gravis, secondo le linee guida internazionali, è quello di ottenere manifestazioni minime di malattia (Minimal Manifestation Status, MMS), come definite dal MGFA Post-Intervention Status (PIS) in associazione a effetti collaterali minimi dopo il trattamento. Le misure di outcome più utilizzate sono le scale Myasthenia Gravis Activities of Daily Living (MG-ADL) e la Quantitative Myasthenia Gravis (QMG). La MG-ADL è una misura dell’impatto della malattia sull’attività quotidiana del paziente e della disabilità percepita, mentre la QMG è una misura obiettiva. Un altro parametro sempre più utilizzato è la Minimal Symptom Expression (MSE) in base a MG-ADL. La necessità di diverse scale è dovuta al tentativo di valutare il paziente anche per gli aspetti che di solito vengono intercettati meno dal medico, tra cui spasmi, dolore o fatica.
In questo contesto, molto c’è ancora da scoprire in termini di nuovi biomarcatori che possano aiutare a valutare meglio l’attività di malattia, di predittori di outcome, sia clinici sia biologici, e infine di parametri per definire lo stato immunologico dei pazienti che vadano al di là del mero titolo anticorpale.
Per questo motivo, la ricerca è orientata all’utilizzo di nuove tecnologie – tra cui il single cell RNA sequencing, la citometria di massa, la trascrittomica spaziale e il sequenziamento del recettore dei linfociti B – al fine di ottenere nuovi biomarcatori, candidabili a un successivo sviluppo e a una validazione per una più larga diffusione nella clinica. La prospettiva è quella di arrivare anche in neurologia al concetto di fenomica, cioè di integrazione dei dati clinici, biologici, del trascrittoma, del genoma, del proteoma, per cercare di personalizzare sempre di più il trattamento, così come già si sta facendo in oncologia.