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Il dolore nociplastico. Da patologia sine materia a disfunzione del sistema nervoso

Marina de Tommaso
UOC di Neurofisiopatologia, Università di Bari Aldo Moro, AOU Policlinico, Bari

Il dolore come sintomo ed esperienza soggettiva

L’Associazione Internazionale per lo studio del dolore (IASP) ha definito il dolore nociplastico come un dolore causato da alterata nocicezione, a fronte di assenza di evidente danno tissutale connesso ad attivazione dei nocicettori periferici, ovvero malattia o lesione del sistema somatosensoriale (Kosek et al., 2016).

È stata così individuata una terza tipologia di dolore, accanto al dolore con evidenza di infiammazione, ovvero il dolore nocicettivo, e a quello con evidenza di lesione o malattia del sistema somatosensoriale, ovvero il dolore neuropatico.

Queste due ultime tipologie, accanto al sintomo del dolore, necessitano di segni obiettivi per la diagnosi, nel primo caso dell’evidenza dell’infiammazione con il conseguente danno tissutale, esempio per tutti l’artrite, nel secondo caso della patologia a carico del sistema somatosensoriale, per esempio la sclerosi multipla e la neuropatia diabetica. Nel dolore neuropatico, il neurologo riconosce i segni obiettivi neurologici, confortati dai reperti di neuroimmagine e neurofisiologici.

Precedentemente alla definizione di dolore nociplastico, la presenza del sintomo necessitava del riconoscimento di una patologia neurologica, reumatologica o generalmente internistica sottostante, con i relativi segni obiettivi. Tutto quanto non corroborato da tali evidenze veniva ascritto alla cosiddetta categoria del “dolore sine materia”, in forse tra simulazione e somatizzazione (Garcia Larrea et al., 2002).

Le neuroscienze cliniche però si evolvono nella direzione di dare senso al sintomo, sia motorio che ancora più sensitivo. La presenza del sintomo implica comunque una disfunzione del sistema nervoso centrale, ampiamente supportata dal complesso funzionamento dei sistemi di controllo del dolore, condizionati dal contesto e dalle variabili cognitive e psicopatologiche (Tracey e Manthy, 2007).

Aree corticali coinvolte nella cognizione, nell’emozione, nel comportamento sociale, contestuale e relazionale si attivano per conferire alla sensazione dolorosa la connotazione soggettiva, che perde la correlazione lineare con la causa primaria del dolore stesso (Figura 1).

Figura 1 Meccanismi corticali di controllo del dolore

Fonte: liberamente adattato da Tracey I, Mantyh PW, 2017

La sensibilizzazione centrale e le sindromi associate

Il fenomeno della sensibilizzazione centrale, intesa come alterato funzionamento dei sistemi di controllo inibitorio del dolore, è ora riconosciuto meccanismo comune a numerose patologie di incredibile impatto in termini di disabilità e costi sociali e sanitari (Arendt-Nielsen et al., 2018).

Il dolore pelvico e lombare cronico, la dismenorrea primaria, la cefalea tensiva cronica, la forma cronica dell’emicrania, la sindrome dell’intestino irritabile sono patologie senza compromissione evidente degli organi primariamente coinvolti, ma caratterizzate da una dismodulazione delle afferenze nocicettive da essi prodotte.

Diversi specialisti sono coinvolti nella gestione di tali patologie, dall’ortopedico, al gastroenterologo, al ginecologo, sebbene la base comune di esse risieda in un meccanismo puramente neurogeno, riconosciuto dagli specialisti neurologi alla base ad esempio della fisiopatologia delle cefalee primarie (de Tommaso e Sciruicchio, 2016) .

Dalla diagnosi alla patogenesi della fibromialgia: dal reumatologo al neurologo

La fibromialgia è forse la patologia più frequente e invalidante nell’ambito di quelle sopracitate, che peraltro spesso sono ad essa associate. Gli specialisti reumatologi sono stati tradizionalmente i referenti di tale patologia, essendo da sempre, più dei neurologi, esperti di condizioni di dolore cronico, per lo più di tipo infiammatorio. Ad essi il merito di aver sempre dedicato attenzione e conferito dignità a tale patologia, spesso negletta da altri specialisti, mediante classificazioni in grado di riconoscerla.

Nel 1990 il Collegio dei reumatologi americani definiva per la prima volta i criteri diagnostici della fibromialgia, riconoscendola quindi come patologia, sulla scorta dei sintomi soggettivi presentati (Wolfe et al., 1990). Tali criteri si basavano essenzialmente sul vissuto di dolore diffuso a tutto il corpo, sintomi associati come fatica e disturbi del sonno, e sensazione dolorosa nei cosiddetti punti trigger, siti muscolari di particolare sensibilità alla pressione.

La positività di un numero ritenuto congruo di tender points definiva la diagnosi, in parte basata su un fenomeno sostanzialmente allodinico, dato che lo stimolo meccanico evoca dolore solo in presenza del fenomeno di sensibilizzazione centrale. I reumatologi, nel riconoscere il fenomeno della sensibilizzazione centrale alla base del dolore fibromialgico, ammettevano l’assenza di cause infiammatorie di loro stretta pertinenza, ascrivendo quindi l’origine della fibromialgia a cause per lo più neurogene. Mentre la comunità neurologica focalizzava gli interessi di ricerca su altre categorie di dolore, come la cefalea e il dolore neuropatico, i reumatologi usavano gli strumenti delle neuroscienze cliniche, per spiegare il complesso fenomeno della dismodulazione centrale nei pazienti con fibromialgia. Gli studi di Risonanza Magnetica Funzionale, mettevano in luce una iperattivazione delle aree cerebrali deputate al controllo del dolore, anche in relazione a stimoli di bassa intensità (de Tommaso et al., 2022). Nel frattempo, i criteri diagnostici si evolvevano in modo da conferire massima rilevanza alla diffusione del dolore e ai sintomi associati, in particolare disturbi del sonno, fatica e turbe cognitive, oltre ad un ulteriore corredo sintomatologico, composto da sintomi gastrointestinali, psichiatrici-in particolare ansia e depressione- cefalea, fenomeno di Reynaud, ipertermia, secchezza delle mucose, turbe respiratorie (Wolfe et al., 2010).

L’esclusione dei tender points dai criteri diagnostici della fibromialgia veniva al più giustificata dalla loro scarsa rappresentazione anche in pazienti con quadro conclamato di dolori diffusi e condizioni associate, a riprova del fatto che il fenomeno di sensibilizzazione centrale può essere poco evidente a livello muscolare, ma manifestarsi in sintomi complessi con coinvolgimento multiorgano. La definizione diagnostica più recente messa a punto dai reumatologi, e assunta anche da comunità scientifiche neurologiche, come appunto quella italiana (De Vigili et al., 2023), ha semplificato i criteri del 2010, e ridotto il numero dei sintomi associati, focalizzandosi sui disturbi a livello intestinale, sulla comorbidità con cefalea e la presenza di depressione, oltre alla condizione di fatica, disturbi cognitivi e del sonno (Wolfe et al., 2016).

La novità di questo ulteriore aggiornamento dei criteri diagnostici è nella possibilità che la fibromialgia coesista con il dolore nocicettivo o neuropatico, a conferma che il meccanismo di sensibilizzazione centrale può rappresentare una complicanza che altera il quadro della malattia di base e configura una seconda malattia, e non una sindrome, associata alla prima condizione, riconoscibile e spesso anche più invalidante.

La frequente comorbilità con le cefalee primarie (de Tommaso, 2015) e la sempre crescente attenzione verso la base neurogena del dolore fibromialgico e il suo potenziale trattamento hanno attratto l’attenzione dei neurologi clinici, con ulteriore approfondimento delle cause di questa complessa patologia (de Tommaso et al., 2022). Gli studi neurofisiologici hanno confermato il difetto di modulazione centrale del dolore, espresso come ridotta abitudine a stimoli multimodali e in particolare dolorosi, analogamente ad altre condizioni spesso associate alla fibromialgia, come l’emicrania (de Tommaso et al., 2011).

Sistema nervoso centrale e periferico: nasce prima l’uovo o la gallina?

Con il crescente interesse dei neurologi verso questa patologia, emergeva una problematica inaspettata, cioè la coesistenza di una neuropatia periferica, a precipuo coinvolgimento delle fibre del dolore, cioè le cosiddette “piccole fibre” (Üçeyler et al., 2013).

Certamente la comunità clinica ha riconosciuto che tale patologia periferica impronta poco il quadro clinico, non avendo la fibromialgia alcun aspetto sindromico in comune con la classica neuropatia delle piccole fibre. Questa caratterizza pazienti con diabete, sindromi paraneoplastiche e disimmuni e si caratterizza per la sensazione di mani e piedi dolenti e brucianti, spesso in assenza dei sintomi associati che contraddistinguono la fibromialgia (Leone et al., 2023).

Il riconoscimento mediante biopsia di cute, esami neurofisiologici specifici per il sistema nocicettivo e per il sistema vegetativo di tale patologia periferica ha incentivato l’interesse dei neurologi e condotto a numerose ipotesi patogenetiche, che possano accomunare il disturbo neurogeno centrale e periferico in una mutua connessione causale (Aster et al, 2022).

La prima ipotesi patogenetica riguarda un rapporto di causa effetto tra patologia delle piccole fibre, incremento dell’afferenza nocicettiva da sensibilizzazione periferica e iperattivazione corticale in soggetti predisposti. In altri termini, in soggetti predisposti al fenomeno della alterata modulazione centrale del dolore, una neuropatia periferica dolorosa ancorché di lieve entità, può essere “letta” a livello centrale in modo paradosso (Brietzke et al, 2019).

Resta comunque il quesito relativo alle cause di tale patologia delle piccole fibre come potenziale innesco del successivo fenomeno di sensibilizzazione centrale.

Una predisposizione genetica potrebbe giustificare entrambe le condizioni di sensibilizzazione periferica e centrale, con anomalie dell’eccitabilità neuronale connesse ai canali ionici, come i canali TRPA1 (Marchi et al., 2023). Questi risultati potrebbero aprire uno scenario su potenziali terapie target, cioè trattamenti connessi alla specifica anomalia.

Fenomeni autoimmunitari potrebbero parimenti giustificare il danno delle piccole fibre, con conseguente iperattivazione centrale su predisposizione individuale. Questa ipotesi è attraente, soprattutto in vista di un potenziale effetto di trattamenti miranti a ridurre la disimmunità, ma purtroppo esclusivamente sostenuta da evidenze su modelli animali (Goebel et al, 2021).

Un’ipotesi alternativa e attraente è stata parimenti suggerita da studi su animali. L’iperattivazione corticale di aree deputate alla percezione ed elaborazione del dolore, come l’insula, sarebbe in grado di determinare un effetto compensatorio a livello periferico, con un progressivo depauperamento dei terminali nocicettivi (Harte et al, 2017). Questa ipotesi suggerirebbe quindi un rimodellamento periferico delle afferenze nocicettive anche in patologie a prevalente genesi centrale, come la malattia di Parkinson e altre patologie degenerative del SNC (Nolano et al., 2017).

La stessa riduzione del movimento, peculiare dei pazienti con dolore cronico e soprattutto con fibromialgia (Gentile et al., 2020), può condurre ad un progressivo riadattamento delle afferenze somatosensoriali, incluse quelle dolorose, e ad una alterazione dei meccanismi di interazione sensorimotoria.

Come trattare il dolore nociplastico e la fibromialgia?

La complessità sintomatologica della fibromialgia non consente a tutt’oggi un trattamento farmacologico di provata efficacia. I farmaci che modulano la trasmissione del dolore, utilizzati nel dolore neuropatico, quali pregabalin/gabapentin, duloxetina e amitriptilina hanno efficacia limitata e sono gravati da numerosi effetti collaterali, peraltro molto avvertiti dai pazienti data l’accentuata attenzione verso i sintomi somatici e viscerali. (Mac Farlane et al., 2017). La terapia basata su immunoglobuline non trova ovviamente studi che ne dimostrino l’evidenza di efficacia.

Il trattamento delle condizioni associate come l’emicrania, a tutt’oggi possibile per le nuove terapia target, può favorire una riduzione della disabilità (Tepper, 2023).

L’approccio non farmacologico rimane l’opzione più accreditata (Kundakci et al., 2022), ma comporta una globale presa in carico del paziente e un apporto multidisciplinare, spesso complesso nell’ambito della corrente organizzazione dei servizi sanitari.

L’azione mirata sul sistema cognitivo ed emozionale e la corretta manipolazione del contesto possono costituire strumenti potentissimi di rimodellamento delle aree corticali disfunzionali (Figura 1).

Tecniche di controllo dello stress e in generale l’apporto psicoterapico cognitivo-comportamentale portano alla necessaria consapevolezza della patologia e ai metodi di potenziale miglioramento.

La ripresa graduale dell’esercizio fisico, con programmi adattati alla condizione individuale, riattivano l’interazione sensorimotoria, determinando possibili effetti benefici sulla innervazione periferica e sul network motorio corticale in grado di inibire le aree coinvolte nella modulazione del dolore (Gentile et al., 2022).

Restituire la dignità al sintomo significa riconoscerne il potenziale effetto disabilitante, cercarne le cause e credere nella possibilità del rimedio e della guarigione.

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Anastassia Zahova

Giornalista medico scientifico