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everolimus paziente

Sclerosi tuberosa. Con everolimus un cambio di paradigma nel trattamento

Al 42° Congresso Nazionale LICE (Lega Italiana contro l’Epilessia) abbiamo incontrato la Prof.ssa Maria Paola Canevini, Direttore UO NPI-CRE, Polo Santi Paolo e Carlo, Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Milano e Direttore della Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile, Università degli Studi di Milano

Prof.ssa Canevini, parliamo di sclerosi tuberosa: quali sono le novità per la gestione di questa malattia, che sono emerse negli ultimi anni?

Per la terapia, la novità principale è legata ad everolimus, che si è rivelato un farmaco molto utile per diverse manifestazioni della sclerosi tuberosa, dall’angiomiolipoma renale all’astrocitoma subependimale gigantocellulare (SEGA). Dopo gli studi controllati e randomizzati, il farmaco è utilizzato nella pratica clinica, ed è prescrivibile in Italia. Nei trial indirizzati allo studio dell’efficacia di everolimus nel trattamento dell’angiomiolipoma renale e dell’astrocitoma gigantocellulare, si è visto che in questi soggetti, che appartengono alla categoria di pazienti con le forme più gravi di sclerosi tuberosa nei quali l’epilessia è presente nel 60-70% dei casi ed è farmacoresistente, le crisi si riducevano in frequenza durante il trattamento con everolimus; questo ha portato a condurre degli studi mirati, dove è stata dimostrata l’efficacia antiepilettica di everolimus, un farmaco che agisce sul pathway di mTOR, coinvolto in molti processi nel Sistema Nervoso Centrale, compresi il corretto sviluppo dei network neuronali e l’epilettogenesi.

Ciò che recentemente è risultato sempre più chiaro è che dobbiamo intervenire il più presto possibile nella cura dell’epilessia, perché ciò ha un’influenza importante anche sulla parte cognitivo-comportamentale nello sviluppo nei bambini con sclerosi tuberosa: i disturbi del neurosviluppo, l’autismo e la disabilità intellettiva tendono a essere meno gravi quando riusciamo a controllare precocemente le crisi. Possiamo intervenire con vigabatrin, farmaco noto da tempo che funziona contro gli spasmi della sclerosi tuberosa. Sapevamo che il suo funzionamento fondamentale era mirato all’incremento del GABA, ma ora è stato visto, in modelli murini, che inibisce parzialmente anche l’attività del pathway di mTOR.

Quindi everolimus si può somministrare in associazione a vigabatrin?

Certo, everolimus si può dare insieme a vigabatrin, ma si prescrive ai pazienti che hanno già provato altri farmaci e con età superiore ai due anni. Sottolineo che si tratta di un’esperienza molto recente, perché è da poco che si usa per trattare l’epilessia. A titolo d’esempio possiamo citare l’esperienza di un bimbo che aveva un controllo completo delle crisi, ma in cui abbiamo dovuto sospendere everolimus per possibili effetti collaterali: dopo un periodo senza crisi, ha ricominciato ad averne con elevata frequenza; abbiamo quindi reintrodotto il farmaco e le crisi sono cessate… Si tratta di un caso singolo, ma che rinforza le prove di efficacia.

Dal punto di vista di voi clinici che vedete quotidianamente i pazienti, si può parlare, quindi, di una novità importante, di un cambiamento reale?

È anche un cambiamento legato a quella che viene chiamata medicina di precisione: mentre finora abbiamo agito con farmaci per bloccare le crisi, senza preoccuparci minimamente dell’eziologia, ora possiamo disporre di farmaci mirati sull’eziologia: everolimus è rivoluzionario in questo senso.

State sperimentando anche i dosaggi e tutti gli aspetti legati alla gestione della terapia?

Stiamo cominciando ora ad usare i nuovi dosaggi, che sono più alti di quelli che avevamo in indicazione per l’astrocitoma gigantocellulare; bisogna gestire il farmaco anche in termini di interazioni farmacologiche, con i farmaci antiepilettici, induttori enzimatici. Mi sembra che i neurologi ed i neuropsichiatri infantili abbiamo qualche timore nella gestione clinica di everolimus, perché è diverso dai farmaci tradizionali a cui sono abituati, essendo una target therapy, che ha anche proprietà immunosoppressive ed utilizzato sinora in un campo completamente differente. In realtà è un farmaco che non dà particolari problemi di gestione, avendo in mente cosa monitorare.

Considerando che l’interruzione della terapia causa la ricomparsa dei sintomi, bisogna proseguire il trattamento a lungo? Quanto deve durare?

Per quello che sappiamo sinora sì; la sospensione determina la ripresa della crescita dell’astrocitoma gigantocellulare, per esempio. In futuro, dovremo capire quanto proseguire con la terapia nell’epilessia e se cominciare prima, per agire sull’epilettogenesi, prima che divenga attiva; vediamo spesso bambini che hanno le crisi o anomalie epilettiformi già da neonati, crisi ed anomalie che poi crescono di quantità e possono diventare multifocali: quando questo succede, sappiamo di andare verso una situazione di un’epilessia importante, che dobbiamo trattare avendo in mente che influenzerà il neurosviluppo del bambino, intervenendo con un farmaco che ha un qualche effetto sul pathway di mTOR. La sfida sarà trovare il modo di intervenire il più precocemente possibile.

Perché adesso l’indicazione è solo dai due anni in poi…

Sì, esattamente.

E per quanto riguarda la diagnosi? Si può fare addirittura durante la gestazione?

Sì perché un vantaggio – pur nella complessità della malattia che sicuramente ha una gravità importante – è che molto spesso si manifesta con un rabdomioma cardiaco, che può essere riconosciuto in ecografia prenatale dalla 20a settimana di gestazione in poi: visto quello, si può fare una risonanza magnetica fetale, che consente di evidenziare le malformazioni corticali. In questo modo, già alla nascita, il bambino può essere monitorato e seguito in modo stretto e questo è un vantaggio che consente di intervenire precocemente e consentirà di disegnare studi mirati al trattamento prima che si sviluppino le crisi cliniche… chiaramente non avviene in tutti i casi.

Ma questa è una malattia genetica?

Sì, è una malattia genetica, in buona parte dei casi sporadica, frutto di mutazioni de novo, ma ci sono anche dei casi familiari e dei casi “a mosaico”, dovuti a mutazioni non germinali, ma somatiche.

Quindi si potrebbe aprire una strada importante se venisse confermata la possibilità di utilizzare questo farmaco per gestire l’epilessia?

Se riuscissimo a bloccare l’epilettogenesi, certo, sarebbe un grande risultato… Il pathway di mTOR si è dimostrato comune anche ad altre patologie cerebrali, come le displasie corticali focali e la megalencefalia: in queste situazioni, l’epilessia è praticamente sempre presente, ed è tendenzialmente farmaco-resistente, tanto che c’è un’indicazione chirurgica; anche per questi casi, bisognerebbe strutturare degli studi, che sicuramente sono più difficili di quelli per la sclerosi tuberosa.

Perché si tratta di patologie più difficili da individuare?

Certo, occorrono buoni studi di risonanza magnetica con una buona interazione tra neurologo e neuroradiologo, per essere certi della diagnosi, e poi fare un colloquio che sia il più accurato possibile.

Questi studi sugli mTOR inibitori potrebbero aprire anche delle prospettive, in altri campi, per esempio nel trattamento della sindrome dello spettro autistico?

La parte della compromissione cognitivo-comportamentale che c’è nella sclerosi tuberosa è in parte indipendente dalla presenza di crisi ma in parte può essere peggiorata dalla presenza di un’epilessia severa. Si pensa che l’intervento sulle crisi potrebbe avere un impatto importante anche per mitigare la gravità, per esempio, del disturbo dello spettro autistico: ci sono degli studi sugli animali incoraggianti. Sono necessari studi futuri che ci indichino il momento giusto per iniziare la somministrazione.

Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.