Da un farmaco per l’ipertrofia prostatica nuove indicazioni per la cura del Parkinson
Una buona dose di serendipity e un’attenta metodologia di ricerca hanno portato a una scoperta che potrebbe aprire nuovi orizzonti nel trattamento della malattia di Parkinson (PD). Uno studio multicentrico che ha coinvolto ricercatori ispanici, americani e cinesi appena pubblicato sul Journal of Clinical Investigation indica che la terazosina, un antagonista α-1 correntemente usato nell’iperplasia prostatica benigna e talora nell’ipertensione, coinvolgendo quindi numerosi pazienti per lo più anziani, esercita un’azione protettiva anche nei confronti del più noto disturbo del movimento, peraltro assai frequente in quella fascia d’età.
I ricercatori si sono inizialmente accorti che nel moscerino e nel topo la terazosina evitava la riduzione dei livelli di ATP tipica del PD. L’effetto si è confermato anche in topi parkinsonizzati tramite MTPT e alla base del fenomeno è stata trovata l’induzione di un’aumentata disponibilità di PGK1 (fosfoglicerato-kinasi 1) che, attraverso i suoi elementi chinazolinici, stimola la glicolisi, la quale sostiene l’ATP ,che a sua volta mantiene elevati livelli di dopamina con conseguente miglioramento delle performance motorie.
Inoltre la fosfoglicerato-kinasi 1 contrasta, rallentandoli o evitandone lo sviluppo, i fenomeni di neurodegenerazione da rotenone coinvolti nella mutazione del gene LRRK2 responsabile del 4% dei casi familiari di PD e dell’1% di quelli sporadici. Quest’azione sembra verificarsi anche a degenerazione già avviata.
I riscontri osservati nell’animale sono stati confermati in vivo su cellula umana e, prima di una sperimentazione sull’uomo, i ricercatori hanno optato per un controllo di tipo epidemiologico: grazie all’enorme massa di dati ricavabili dai data base dei pazienti prostatici trattati con il farmaco hanno potuto verificare se in tali soggetti la frequenza di PD era inferiore alla media.
Ne hanno scelti due (Truven Health Marketscan Commercial Claims and Encounters e Medicare Supplemental Databases) con 78.444 pazienti trattati per almeno un anno nel periodo 2011 – 2016 e il rischio di sviluppare PD è risultato significativamente inferiore. Peraltro in chi si era ammalato di PD la progressione della malattia risultava rallentata e il rischio di diagnosi di PD ridotto come pure la comparsa di complicanze come ipotensione ortostatica e cadute.
L’ovvia conseguenza sarà uno studio su ampia scala mirato sulla nuova scoperta, anche perchè gli autori lanciano nelle conclusioni dello studio un’ipotesi affascinante: ancora non si sa perché il PD colpisca circa 1,5 volte più gli uomini delle donne.
Il gene della PGK1 si trova sul cromosoma X e quindi una sua eventuale alterazione determina più facilmente conseguenze nei maschi, con ereditarietà verosimilmente X-linked di tipo recessivo. Che il deficit energetico derivante da una ridotta glicolisi per una qualche alterazione della PGK1 possa essere uno dei fattori predisponenti allo sviluppo della malattia di Parkinson che esordisce quando si associano altri fattori ambientali o genetici?
Fonte: The Journal of Clinical investigation, Rong Cai et al., 2019