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Parkinson fumo

I cembranoidi del tabacco alla base del potenziale effetto neuroprotettivo del fumo nel Parkinson?

Il 19 gennaio, ad opera dei ricercatori Shinsuke Fujioka, Ruey-Meei Wu e Yoshio Tsuboi della Fukuoka University è stato pubblicato sulla rivista Neurology l’ennesimo editoriale sulle correlazioni fra vizio del fumo e rischio di malattia di Parkinson con un titolo alquanto intrigante: Does cigarette smoking do nothing but harm?, Fumare sigarette fa soltanto male?

L’articolo dei ricercatori giapponesi s’inserisce nell’ambito di un lungo filone di ricerca iniziato già nel 2010 con un’ampia review pubblicata su Neurology dalla UCLA School of Health di Los Angeles dove Beate Ritz e coll, raccogliendo cinquant’anni di ricerche, avevano ricavato alcuni punti fermi come il fatto che non sarebbe la quantità di sigarette fumate a interferire con la malattia, bensì il tempo che si è fumato; chi ha cominciato prima è meno probabile che poi si ammali di Parkinson: questi soggetti avrebbero una via dopaminergica che, se da un lato fa apprezzare le sigarette, dall’altro li porta a non ammalarsi di Parkinson.

Questo particolare aspetto è stato suffragato quest’estate da uno studio di Ritz B e coll. su Neurology che dimostra come all’opposto chi sta covando la malattia trovi più facile abbandonare la sigaretta.

Ma non è il fumo che preserva dalla malattia, bensì il fatto che chi non prova precoce gusto per la sigaretta ha verosimilmente un particolare sistema dopaminergico, la via nervosa deputata, oltre che al movimento, anche al compenso, al piacere e alla dipendenza ed è questa particolarità il fattore che ridurrebbe il rischio.

Uno degli studi più recenti è quello di quest’estate su Movement Disorder di Arnold Rossi e coll. della Penn University che per gli USA hanno previsto per il 2040 770mila casi di malattia di Parkinson (PD), uno tsunami di pazienti inversamente proporzionale al calo del vizio del fumo che si sta verificando nella società americana.

Lo studio dei ricercatori della Penn University si fonda sul fatto che i calcoli epidemiologici finora effettuati non avevano tenuto conto dell’impatto del declino del tabagismo che si sta verificando negli Stati Uniti. Se invece si prende in considerazione questa variabile documentata dall’US Census Bureau e dall’US Surgeon General’s Smoking Report, il rischio di PD sale dello 0,56% per i fumatori e dello 0,78% per gli ex fumatori, col risultato di un aumento totale del 10% di pazienti PD che passeranno dai 700mila del 2000 a 770mila del 2040.

A riprova di questa proporzionalità inversa c’è stata anche la dimostrazione di un effetto di neuroprotezione esplicato dai cosiddetti cembranoidi, diterpenoidi ciclici naturali antagonisti dei recettori nicotinici neuronali (nAChR).

I cembranoidi del tabacco si opporrebbero all’azione di eccito-tossicità dell’NMDA, il recettore N-metil-D-aspartato del glutammato. La protezione dei cembranoidi sarebbe verosimilmente svolta dal sottorecettore acetilcolinico nicotinico α-4ß2 antagonista selettivo di nAChR: che sia forse questo il fattore sconosciuto che gli Autori giapponesi dell’ultimo editoriale appena pubblicato su Neurology indicano come l’ultima frontiera ancora da scoprire per capire su cosa si basi l’effetto potenzialmente neuroprotettivo del fumo di sigaretta?

A tal proposito vanno ricordati gli studi su gemelli fumatori e non fumatori che hanno evidenziato un maggior rischio per questi ultimi rispetto ai fratelli. Addirittura il fumo passivo sembrerebbe svolgere un ruolo nella riduzione del rischio: uno studio australiano pubblicato nel 2009 (Am J Epidemiol) e da citare per la sua inquietante originalità, ha indicato che anche la sola esposizione al fumo che subiscono i figli di genitori fumatori riduce il rischio del 30% in bambini cresciuti in questo malsano ambiente familiare, per altri versi deleterio e deprecabile.

 

Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.