Parkinson, migliorare il percorso di assistenza con il dialogo tra neurologi e associazioni di pazienti
Il professor Alfredo Berardelli, Presidente della Società Italiana di Neurologia, e Giangi Milesi, Presidente della Confederazione Parkinson Italia si confrontano su alcuni temi legati alla presa in carico del paziente con malattia di Parkinson.
Quali sono i campanelli d’allarme che ci possono far pensare alla Malattia di Parkinson (MP) e quali sono i vantaggi di una diagnosi precoce?
Alfredo Berardelli. I primi sintomi che spingono una persona a recarsi da un medico generalista e poi da un neurologo possono essere di tipo motorio: di solito viene notato un tremore agli arti superiori o inferiori, oppure un lieve rallentamento nei gesti che a ciascuno di noi capita di fare nella vita quotidiana, o ancora una certa rigidità nei movimenti. Quindi in genere i primi sintomi sono disturbi del sistema motorio. Poi, quando procede con l’anamnesi, il neurologo che conosce bene la MP si accorge di alcuni campanelli di allarme, che possono andare dai disturbi del sonno ai disturbi del tono dell’umore, dai disturbi intestinali, come la costipazione, ai disturbi dell’olfatto. Uno dei problemi però è che tutti questi sintomi sono aspecifici, comuni a tante malattie, per cui, quando si presentano in modo isolato, senza altri sintomi concomitanti, è difficile che un medico di Medicina generale, o anche uno specialista, arrivi a ipotizzare la MP. Venendo alla seconda parte della domanda, è importante individuare la malattia in fase precoce in primo luogo perché è fondamentale stabilire fin dall’inizio un rapporto chiaro con il paziente, a cui occorre spiegare di che cosa si tratta dal punto di vista medico e quale può essere l’evoluzione della malattia, perché molto spesso le persone sono preoccupate, perché hanno in mente gli esiti più gravi e invalidanti della patologia.
Va sottolineato inoltre che attualmente disponiamo di diverse opzioni terapeutiche, e possiamo fare in modo che il paziente abbia una vita pressoché normale. Chiaramente ci sono casi con un’evoluzione più aggressiva, però in generale non è così, perché esistono vari sottotipi clinici e biologici. Anzi, nelle fasi iniziali, la malattia può avere manifestazioni tali da non meritare neanche un trattamento farmacologico: bisogna anche cercare di spiegare che ogni storia è diversa dall’altra. Infine, vorrei sottolineare che anche certi stili di vita sono particolarmente utili nelle fasi iniziali per rallentare il decorso naturale della malattia. Più nello specifico, i pazienti con diagnosi di MP vanno spinti fin dall’inizio a fare una vita normale, a dedicarsi ad attività intellettuali e fisiche, che hanno dimostrato entrambe di poter rallentare la progressione della sintomatologia.
Giangi Milesi. Devo dire che ho apprezzato moltissimo questa analisi, perché il professore è riuscito a rappresentare in modo semplice la complessità della situazione, complessità che deriva dal fatto che anche i sintomi non motori possono essere le prime avvisaglie di malattia: nel mio caso per esempio è stata una depressione che, grazie all’interessamento di una psicologa, è poi giunta all’attenzione di un neurologo.
Alfredo Berardelli. Sì, certo, questo rappresenta un problema, perché – torno a ripetere – quando una persona si rivolge a un medico perché si sente giù di morale o depressa, o ha poca voglia di fare le cose e ha solo questo sintomo, sinceramente è difficile pensare che abbia il Parkinson. Per questo è fondamentale stare attenti a questi sintomi e seguire il paziente a distanza di tempo. Spesso questo non riusciamo a farlo perché siamo un po’ frettolosi – questa è una critica generale alla nostra categoria, ovviamente.
Giangi Milesi. Chiaramente ho citato la depressione non per parlare del mio caso personale, ma per sottolineare quanto sia necessario che le Associazioni dei pazienti facciano proprie queste conoscenze 8 sulle differenti forme in cui la malattia si presenta e le divulghino al grande pubblico; su questo tema, vorrei sottolineare che tra i pazienti si osserva non soltanto una mancanza di conoscenza sulla malattia, ma spesso anche un fenomeno di resistenza ad accettarla: posso citare il caso di una conoscente che mi riferì una volta di soffrire di depressione, ma di essere sicura di non avere il Parkinson, pur assumendo regolarmente carbodopa/ levodopa. In aggiunta, veniva spesso tranquillizzata dal coniuge sul fatto di non avere nulla! Se questo è uno spaccato di ciò che viene effettivamente percepito dalle persone dobbiamo veramente “rimboccarci le maniche”…
Tutto questo discorso ritengo si ricolleghi benissimo al tema del rapporto medico-paziente, di cui il professore ha appena sottolineato l’importanza: è per questo che è nata la campagna che abbiamo presentato a un parterre di professionisti competenti tra cui il prof. Berardelli. Sono molto contento che il professore abbia menzionato anche l’importanza di un corretto approccio diagnostico-terapeutico, perché la complessità della malattia si deve riflettere nella complessità della cura: si parla oggi di una “cura sartoriale” perché il neurologo deve bilanciare diversi fattori.
Quali sono le sfide per una buona qualità di vita del malato?
Alfredo Berardelli. Intanto, la persona affetta da MP deve essere ben curata: la prima sfida è quindi selezionare il farmaco giusto per la persona che abbiamo di fronte, ma soprattutto scegliere il giusto dosaggio. È molto importante, nella mia opinione, adeguare il tipo di farmaco e il suo dosaggio alle diverse fasi di malattia, a seconda dell’effetto che si vuole ottenere per mitigare gli effetti della patologia sulla vita lavorativa, familiare o sociale; un’altra sfida per una buona qualità di vita è, come dicevo prima, spiegare bene al paziente le caratteristiche della malattia e la sua possibile evoluzione, nonché consigliare stili di vita appropriati. Poi chiaramente c’è la sfida della ricerca scientifica, che in anni recenti ha aperto nuove prospettive di cura, soprattutto per le fasi avanzate della malattia, come la terapia chirurgica o le terapie infusionali.
Giangi Milesi. Sì già nella prima risposta il professore aveva toccato il problema degli stili di vita: io ritornerei proprio su questo aspetto per parlare di qualità di vita, perché non è questione solo di metabolismo, ma anche di attività sportive o ricreative, passioni, progetti e cose da fare; addirittura in certi casi si nota un incremento della creatività quando il malato si dedica a una passione che aveva perso da tempo. Come Associazione abbiamo una responsabilità in questo, perché siano divulgate le giuste informazioni, non solo per mettere tutti nelle condizioni d’interpretare con più prontezza sintomi e campanelli d’allarme, ma anche per gestire la qualità della vita; ci sono i casi gravi, ovviamente, ma è assurdo non considerare la massa di pazienti che può trovare nelle attività, nello sport, nel ballo o nell’arte una buona qualità di vita. Su questo abbiamo decine di testimonianze di pazienti che, grazie alla cura farmacologica, hanno sperimentato addirittura un’esplosione di passioni, mentre per contro la persona con MP che si chiude in sé stessa percepisce la malattia con più velocità. Se c’è la capacità di reagire, l’aspettativa di vita si avvicina alla normalità.
Alfredo Berardelli. Confermo. Per i soggetti con MP, l’aspettativa di vita è molto simile a quella della popolazione generale, e questo è merito delle terapie che abbiamo anche imparato a gestire meglio: nel tempo, abbiamo capito come evitare di darne in eccesso, un rischio che si accompagna a cambiamenti di personalità; quindi anche questo è importante: avere sempre un atteggiamento di grande cautela nei dosaggi.
Giangi Milesi. Mi sembra fondamentale anche questo riferimento ai dosaggi. Vorrei aggiungere che in questo momento, in cui si parla di investimenti sulla Sanità, l’investimento maggiore da fare a mio avviso è sulle competenze: occorre ampliare la platea di professionisti in grado di occuparsi della malattia, perché anche il tempo da dedicare al singolo paziente diventa importante.
Alfredo Berardelli. Su questo tema, la SIN aveva portato avanti una battaglia con i precedenti governi per far presente la necessità di creare una serie di reti assistenziali che, passando per l’ospedale, arrivino sul territorio – e questo per tutti i pazienti affetti da malattie croniche, non solo per la MP, che devono essere sostenuti nel loro percorso.
Giangi Milesi. In questo le tecnologie potrebbero darci una mano, in molti casi.
Alfredo Berardelli. Assolutamente sì. La telemedicina potrebbe dare un grande contributo, soprattutto quando ci sono grandi distanze da coprire; certo, non si può fare tutto con la telemedicina, perché il contatto in presenza a volte è fondamentale, però si tratta di un supporto che ha grandi potenzialità: il precedente Governo si era dimostrato ricettivo sull’argomento, vedremo ora cosa succederà con il nuovo Governo.
Giangi Milesi. Come Confederazione Parkinson Italia saremmo felici di presentare anche al Governo attuale i risultati straordinari dell’esperienza di Teleassistenza e contrasto alle conseguenze sociali del Covid che abbiamo offerto gratuitamente dal 12 marzo al 31 dicembre 2020. L’accordo fra pubblico/ privato e non profit ha prodotto oltre 7.000 interventi telefonici. Il 75% degli assistiti ha trovato riposte immediate e soddisfacenti direttamente dagli infermieri specializzati mentre il 22% è stato visitato in telemedicina dal neurologo o da altri specialisti come fisioterapisti, logopedisti, terapisti occupazionali. Perciò solo il 2% degli assistiti è stato costretto a lasciare l’abitazione per una visita dal Medico di base e solo l’1% in PS. Oltre all’evidente convenienza economica del sistema, abbiamo riscontrato una maggiore efficacia della visita a distanza, nell’abitazione del paziente, rispetto a quella in presenza nell’ambulatorio e una soddisfazione intorno al 90% in termini di continuità assistenziale e gradimento del servizio. Con il supporto della Fondazione Comunità Milano, possiamo dare vita a una nuova fase della collaborazione con Parkinson- Care, introducendo nell’area metropolitana di Milano la sperimentazione della figura del Network Manager con l’ampliamento dei servizi socio-assistenziali per i fragili: dall’aiuto “clinico” all’orientamento su servizi e procedure per ottenere facilitazioni, esenzioni, sostegno economico.
Qual è il ruolo del caregiver nella malattia e nel percorso di vita della persona con Parkinson?
Alfredo Berardelli. La figura del caregiver è fondamentale nella MP come in altre patologie croniche. Ancora una volta, si tratta di distinguere le diverse fasi di malattia e i differenti bisogni, e spesso si tratta di fornire un supporto psicologico, più che un aiuto fisico, se non chiaramente nelle forme avanzate e invalidanti. Il problema è che nel nostro Paese il caregiver è molto spesso un familiare: i pazienti senza questo supporto familiare hanno maggiori difficoltà a gestire la malattia e l’assunzione di farmaci. Purtroppo la proposta di legge su questa importante questione è rimasta bloccata, ma continueremo a batterci per un riconoscimento della figura del caregiver e perché si arrivi ad avere un adeguato supporto da parte dello Stato. Oltre a ciò, per esperienza diretta posso dire che da parte dei caregiver ho sempre trovato grande disponibilità di collaborazione, anche a entrare negli studi clinici.
Giangi Milesi. Il caregiver è un osservatore privilegiato del malato: in lui (ma più spesso è una lei) il neurologo può trovare una miniera di informazioni, anche e soprattutto quelle che il malato non riesce a dire o ha resistenza a riferire. Per tutte queste ragioni, il 5 maggio scorso abbiamo organizzato in Senato un convegno per sollecitare il riconoscimento giuridico del caregiver. Oltre a parlamentari ed esperti, tra gli apprezzati relatori c’era il professor Berardelli.