Covid-19 e Parkinson, la pandemia ha peggiorato cure e assistenza ai pazienti
Circa 300.000 soggetti colpiti solo nel nostro Paese, un milione e 200mila in Europa, per il 25% sotto i 50 anni di età e per il 10% sotto in 40 anni. Sono queste le cifre epidemiologiche del Parkinson, su cui si sono accesi i riflettori in occasione della Giornata mondiale dedicata alla malattia, che si è celebrata l’11 aprile scorso. L’allarme è legato soprattutto alle proiezioni per i prossimi decenni, considerato l’invecchiamento progressivo della popolazione generale, che non potrà che far aumentare il numero dei pazienti.
Le difficoltà dei soggetti parkinsoniani sono legate principalmente ai problemi motori, che rendono problematiche le attività quotidiane, ma anche ai problemi non motori, tra cui confinamento, distanze insuperabili, solitudine, mancanza di attività fisica, mancate visite di familiari e amici – tutti fattori che possono generare stati ansiosi, depressione e decadimento cognitivo.
In occasione della Giornata mondiale, Giangi Milesi, Presidente Confederazione Parkinson Italia, ha voluto ricordare anche gli effetti delle limitazioni dovute alla pandemia di COVID-19. Il lungo periodo di lockdown in molti casi ha infatti compromesso la qualità delle terapie, anche farmacologiche, e dell’assistenza, anche se i supporti tecnologici hanno contribuito spesso a mitigare le difficoltà di contatto.
Sul fronte dei trattamenti, si segnala un accesso ancora limitato alla stimolazione cerebrale profonda, che consente di ottenere un miglioramento della sintomatologia già nei primi giorni successivi all’intervento e una riduzione dell’assunzione di farmaci dopaminergici dal 50 all’80%, con una percentuale di circa il 15-20% di pazienti che non necessita più di alcuna terapia farmacologica. Gli ostacoli da superare in questo caso sono la mancanza di appropriati network fra neurologi e neurochirurghi e soprattutto l’eterogeneità dei rimborsi tra le diverse realtà dei sistemi sanitari regionali italiani.