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Malattia di Parkinson, la gestione del paziente ai tempi della pandemia. Intervista al professor Antonini

Quale è stato, e quale sarà, l’impatto della COVID-19 nel soggetto affetto da malattia di Parkinson? Come migliorare la relazione medico-paziente e la gestione dei sintomi motori e non motori al fine di assicurare una buona qualità di vita al malato, nonostante il distanziamento fisico? Sono alcuni dei quesiti che hanno fatto da filo conduttore al simposio “Sfide nella gestione dei pazienti affetti da malattia di Parkinson durante la pandemia di COVID-19: quali aspettative?”, promosso da Zambon, che si è svolto lo scorso 12 settembre nell’ambito dell’edizione virtuale dell’International MDS (Movement Disorder Society) Congress (12-16 settembre 2020). Abbiamo approfondito alcune delle tematiche trattate con uno dei relatori del simposio, il professor Angelo Antonini, Direttore dell’Unità Parkinson e disturbi del movimento del Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Padova.

Professor Antonini, I dati relativi al rischio di complicanze correlate all’infezione da SARS-CoV-2 in pazienti con la malattia di Parkinson (MP) sono discordanti. Che evidenze abbiamo?

Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da sintomi motori e non motori. Nei primi anni dalla diagnosi è più facile mantenere i sintomi sotto controllo ma, con la progressione, i pazienti diventano più vulnerabili a infezioni esterne o malattie infettive, a causa della transitoria diminuzione della capacità respiratoria e della risposta del sistema immunitario dovuta ai diversi momenti di difficoltà motoria che si verificano durante la giornata.

Di per sé il Parkinson non è una malattia autoimmune, quindi non colpisce la risposta immunitaria della persona ma, nelle fasi più avanzate della malattia, in cui i periodi di difficoltà motoria sono più marcati, è chiaro che i problemi respiratori possono comparire o aggravarsi e, se un paziente affetto da malattia di Parkinson dovesse essere esposto ad un’infezione da COVID-19 avrebbe potenzialmente una maggiore vulnerabilità a polmoniti interstiziali e a patologie multiorgano. Durante uno studio che abbiamo condotto su un piccolo gruppo di pazienti italiani insieme a un team di esperti inglesi, abbiamo notato che i pazienti affetti da Parkinson non sono più vulnerabili al virus SARS-CoV-2 di un soggetto di pari di età. Osservazione poi confermata da una seconda analisi facente riferimento ad un gruppo più ampio di pazienti della regione Lombardia. Tuttavia, nei pazienti affetti da uno stato avanzato della malattia, il rischio di aggravarsi per complicanze già esistenti è sicuramente maggiore nel caso in cui l’infezione si manifesti nella sua completa entità.

Inattività fisica, stress prolungato e isolamento correlati al lockdown: quale impatto hanno avuto sull’evoluzione della MP e sulla qualità di vita dei pazienti (indipendentemente dall’aver contratto l’infezione)?

I pazienti con Parkinson hanno grande difficoltà nei periodi in cui la loro motilità è limitata, non solo per quanto riguarda la sintomatologia. Durante il periodo di lockdown, è stato difficile per loro anche mettersi in contatto con i centri ospedalieri e questa stessa situazione si sta verificando nuovamente nelle aree europee con una recrudescenza di casi.

È fondamentale che i pazienti siano educati a gestire il loro stato fisico, l’alimentazione e la terapia. Il nostro team, grazie a sussidi informatici, come e-mail e i video-consulti, è riuscito a mantenere un contatto esaustivo con i pazienti, tanto da consentire loro di continuare a fare un minimo di attività fisica in ambito domestico e a seguire strategie che limitassero l’impatto dello stress e dell’isolamento.

Ovviamente molto dipende anche dal contesto abitativo: un piccolo appartamento in città offre opportunità diverse rispetto alla campagna, dove è stato più facile accedere agli spazi all’aperto anche durante il lockdown. Lo stop dell’attività fisica in un paziente di Parkinson accentua e aggrava i periodi di off e riduce l’assorbimento dei farmaci. Tuttavia, se il paziente è adeguatamente formato, il periodo si supera più facilmente, come accaduto per la maggior parte dei nostri pazienti che hanno avuto un transitorio peggioramento o una soggettiva percezione di peggioramento che però, con un adeguato aggiustamento terapeutico, è rientrato fino alla riacquisizione di una buona autonomia motoria.

La necessità di mantenere un contatto con il centro e soprattutto aver avuto in precedenza indicazioni precise su come mantenere uno stato fisico e di salute buono mediante un approccio multidisciplinare alla malattia, hanno permesso ai nostri pazienti di ridurre la sensazione di sofferenza. Purtroppo, per coloro che non avevano questo tipo di competenze, l’impatto è stato maggiore.

Superata la fase acuta della pandemia, che cosa ci ha insegnato questa esperienza e come potrà cambiare l’approccio al paziente con MP?

Quest’esperienza ha confermato che un approccio multidisciplinare è ideale per il trattamento di questa malattia. Quello implementato, infatti, dai centri di terzo livello si è rilevato benefico per superare il periodo di lockdown e tornare subito dopo ad una relativa normalità.

Per molte realtà, in particolar modo in Italia, le modalità di gestione telematica del paziente dovrebbero essere migliorate, laddove ci siano ancora problemi nella logistica e nell’organizzazione dei video-consulti tuttora da formalizzare in termini di rimborso nell’ambito del sistema sanitario nazionale. Si tratta di un’opportunità per i pazienti che in molti casi potrebbero essere valutati attraverso un breve contatto telematico con l’infermiere che ne verifichi lo stato di salute senza la necessità di coinvolgere il medico. Tuttavia, ad oggi non sempre gli strumenti necessari sono disponibili, per il paziente – che però grazie al supporto dei caregivers spesso riesce comunque ad organizzarsi – ma soprattutto per l’ospedale, che spesso non è in grado di fornire al medico flessibilità e strumenti adeguati a questa procedura.

Anastassia Zahova

Giornalista medico scientifico