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neurocellule

Dalla talidomide una speranza per l’infarto cerebrale

Nel modello animale, il farmaco è in grado d’inibire la morte delle cellule nervose

La talidomide ha una triste fama, che deriva da eventi risalenti agli anni sessanta. Assunta dalle gestanti come rimedio contro le nausee mattutine, produceva gravi malformazioni fetali. In anni recenti, tuttavia, il farmaco è stato rivalutato, insieme con i suoi derivati, per il trattamento di alcune neoplasie ematologiche come il mieloma multiplo. Inoltre, le evidenze cliniche ora sembrano suggerire una sua discreta azione di protezione del sistema nervoso, poiché riduce sia lo stress ossidativo sia la risposta infiammatoria, anche se gli esatti meccanismi molecolari all’origine del suo effetto sul cervello erano finora sconosciuti.

Per colmare questa lacuna, una collaborazione di ricercatori giapponesi delle Università di Waseda e di Tokyo, ha studiato la proteina cereblon, bersaglio della talidomide, e la sua proteina di legame, la chinasi attivata da AMP (AMPK), che svolge un ruolo importante nel mantenimento dell’omeostasi dell’energia intracellulare all’interno del cervello. Secondo quanto riportato nell’articolo di resoconto pubblicato sulla rivista “Scientific Reports”, la talidomide inibisce l’attività dell’AMPK ed è perciò in grado di sopprimere la morte delle cellule nervose. Nel modello animale d’infarto cerebrale, i ricercatori hanno scoperto che il trattamento con talidomide riduceva significativamente il volume dell’infarto e i deficit neurologici.

“Speriamo che le nostre scoperte contribuiranno allo sviluppo di nuovi e più sicuri derivati della talidomide: l’obiettivo è curare meglio malattie come l’infarto cerebrale, una delle principali cause di morte in tutto il mondo”, ha concluso Naoya Sawamura, professore associato di neurofarmacologia presso la Waseda University e autore principale di questo studio.

Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.